Una regista e sceneggiatrice visionaria che – per il momento, dato che si tratta di figure versatili e in continua evoluzione – viene positivamente definita surreale, che ama scrutare il lato meno scontato della mente umana. Una serie di cortometraggi e mediometraggi che hanno vinto un numero consistente di premi europei e internazionali, distribuiti nelle sale cinematografiche di Los Angeles. Un percorso di regia che dall’Italia e dalla Scuola di Cinema Immagina arriva, appunto, al di là dell’oceano: in California.
Per la sezione ex allievi in carriera, abbiamo intervistato Samantha Casella, regista italiana che non si è fermata. Né davanti alle critiche, né davanti ai “confini cinematografici” talvolta percepiti a livello nazionale e internazionale. Ed è riuscita non solo ad arrivare a Los Angeles e a trarre il meglio dalla città degli angeli (del cinema?), ma a comprenderne la visione cinematografica d’oltreoceano e fonderla con la propria.
Partiamo dal finale: dove vivi e che cosa stai facendo in questo momento a livello cinematografico e artistico?
Da ormai tre anni a questa parte la mia base è a Los Angeles. Ci sono arrivata per caso, dopo circa quindici anni di cortometraggi – alcuni vincitori di premi internazionali come il Premio Europeo Massimo Troisi –, documentari – come ad esempio sulla realizzazione della Via Crucis di Federico Severino al Pantheon – e video inerenti ad artisti presentati alla Biennale di Venezia. Poi mi sono presa circa quattro anni di pausa, lontano da tutto. In un certo senso è stata la vita a portarmi dove sono ora e a farmi decidere di rimettermi in gioco. E l’ho fatto: ad esempio con un cortometraggio, I Am Bansky, che è stato proiettato per un mese nelle sale di Los Angeles e ha vinto 15 premi in Festival di livello; poi con To A God Unknown che ha superato gli 80 premi vinti in Festival di tutto il mondo. Al che ho sentito che era arrivato il momento di lavorare su un lungometraggio, il cui titolo è Santa Guerra. Avendo deciso di renderlo una produzione italiana, sono tornata in Italia per girarlo.
Quali sono tre differenze importanti tra l’Italia e gli Stati Uniti che hanno conseguenze importanti sul cinema in generale e sulla regia e la recitazione in particolare?
Credo esistano forti preconcetti nei confronti del cinema statunitense, come ad esempio che vengano realizzati o capiti solamente film poveri di contenuti. Anche se non posso dire di essere entrata nel meccanismo cinematografico made in USA, delle grandi produzioni e dei grandi eventi, se parliamo di Festival e contatti tesi a costruire qualcosa di solido per il futuro, a me è accaduto l’esatto contrario. Il mio approccio cinematografico surreale, definito pretenzioso in Italia, negli Stati Uniti è stato compreso e definito un tentativo di indagare sui lati oscuri, sulle fragilità dell’animo umano. Si tratta della mia esperienza personale e quindi fine a sé stessa: sicuramente non tutto il cinema italiano e chi ne fa parte disprezza opere meno narrative. La percezione è però che negli Stati Uniti, a ogni livello, ci sia più posto per tutti.
Conseguenza inevitabile: negli Stati Uniti il contenitore di registi emergenti o a un passo dal grande salto è vastissimo, la competizione a livelli altissimi, quindi occorre per forza anche un pizzico di fortuna, di capacità di “saper vendere” ciò che realizzi, che si tratti di una pellicola romantica, di un thriller o, un po’ paradossalmente, di un film surreale. Non intendo generalizzare, ma in Italia finché non sei arrivato pare si inneschi un sorta di omologazione implicita: il regista deve adattarsi a ciò che si pensa il pubblico voglia vedere. Negli Stati Uniti il settore cinematografico è una tale giungla: che il tuo lavoro venga preso in considerazione da un produttore oppure dall’organizzatore di un festival o da una giuria, beh, tra le pieghe dell’opera deve vedere “qualcosa che funzioni“, anche nel cinema indipendente. Ripeto, sto un po’ generalizzando, perché detto così pare che venga premiata la qualità, mentre io non penso sia una questione di qualità, bensì di trovare una propria cifra, ossia una sua particolarità stilistica. Ecco, io ho trovato sincerità: negli USA, il film deve essere sincero, sia esso un film da box office o un’opera più ricercata.
Qual è il tuo rapporto con gli attori? Quali pensi siano caratteristiche fondamentali per essere un buon regista?
Io adoro gli attori. Credo che il regista inserisca la chiave e accenda il motore, poi però il potenziale dell’auto dipenda in larga misura da loro. Penso non esista una formula magica per essere un buon attore e certamente le caratteristiche cambiano da persona a persona e nel tempo. A volte mi chiedo come il cinema italiano possa aver rinunciato ad alcuni volti che, sono certa, negli Stati Uniti avrebbero funzionato. Ad ogni modo, gli attori sono una categoria per la quale la sensibilità, l’emotività, l’intuito e l’intelligenza debbano essere costanti comuni.
I miei primi “amori” sono stati Marlon Brando ed Elizabeth Taylor. Ora apprezzo molto DiCaprio e Christian Bale, mentre sostengo spesso che proprio noi possiamo godere delle performance della miglior attrice di tutti i tempi: Nicole Kidman. In generale sono affascinata dai volti, dalle “facce da cinema“. Ad esempio, credo che Kristen Stewart sia uno dei più significativi del cinema moderno, che lei come attrice potrebbe fare qualsiasi cosa e le riuscirebbe alla grande.
A livello di registi ho tantissimi modelli: inizialmente sono stati Ingmar Bergman, Stanley Kubrick, Krsyztof Kieslowski e David Lynch, poi sono arrivata ad apprezzare Tarantino e ad avere una vera e propria venerazione per Terrence Malick. Amo i registi che esplorano i sentimenti umani, dov’è tutto un mescolarsi di luce e oscurità, di speranza e disfatta, di emozioni sospese.
Cosa pensi ti abbia dato il corso di regia alla Scuola di Cinema Immagina?
Ripeterò fino alla sfinimento che la Scuola di Cinema Immagina è stata fondamentale per la mia crescita. Non so se Giuseppe Ferlito sia il miglior insegnante di regia in assoluto, ma per me lo è stato. Questo è un dato di fatto e sono certa che nessun altro avrebbe capito la mia particolare sensibilità artistica come invece è stato in grado di fare lui. Certo, essendo un professionista della regia, oltre alla sensibilità entrano in gioco le sue competenze, la sua esperienza sul campo. Io però apprezzo innanzitutto il suo essere un uomo, un regista e un insegnante geniale, fuori dagli schemi. Quando sono uscita dal precedente corso di sceneggiatura e tecniche narrative ero un po’ avvolta nella nebbia e penso che la guida della scuola Immagina sia stata determinante per fare chiarezza.
Chiara Ottanelli