A proposito di parole e invisibilità

RIFLESSIONI SUL CORSO DI DOPPIAGGIO

di Elena Dragoni

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Di tutte le invenzioni, le cure e gli artifici che ruotano attorno al mondo del cinema, e che lo rendono un’arte così potente, quella forse più in ombra è quella del doppiaggio.
Perfino in Italia, che abbiamo una grande tradizione di doppiatori, chi ci pensa, quando vede un film straniero, o un cartone, che c’è dietro anche questo lavoro? E poi, in cosa consiste davvero fare il doppiaggio di una pellicola?
Pur essendo un’appassionata di cinema, non avevo che un’idea, molto approssimativa, di cosa significasse doppiare un film.
Partecipare a una delle lezioni del secondo anno del corso di doppiaggio tenuta da Massimo Alì, una settimana fa, è stata una rivelazione.
Perché doppiare significa, “solo”, restituire tramite un microfono, emozioni, movimenti e intenzioni, reali.
Significa, “solo”, dare colore e vita a corpi estranei unicamente attraverso le proprie parole, dosando con sapienza toni, sfumature, respiri.
Significa “solo”, ovviamente, tenere i tempi esatti del proiettato, del labiale di ogni personaggio; quello che in gergo si chiama synch.
Significa “solo”, essere, vivere, emozionarsi ed emozionare attraverso i panni di un altro.
Un lavoro di fino, come quello di un artigiano, in cui si cesella con l’aria, arpeggiata tra le corde vocali, anziché con lo scalpello.

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Quando assisto al lavoro che i cinque allievi svolgono su Carnage, il bellissimo film del 2011 diretto da Roman Polański, basato sull’opera teatrale Il dio del massacro della drammaturga francese Yasmina Reza, penso che è proprio un lavoro da anime pazienti.
Perché la rifinitura è incessante, i dettagli da curare quasi impercettibili, le attenzioni da prestare tantissime: le pause, i fuori campo, l’interpretazione.
I ragazzi ripetono, instancabili, le stesse frasi; riprovano le parole, gli attacchi che non vanno; limano difetti e imperfezioni, dietro le indicazioni puntuali e sapienti di Massimo Alì, che li orchestra come un direttore d’opera.
Penso anche che è un’arte da anime generose, perché, da attori, si deve accettare di dare il massimo e restare dietro le quinte, si deve accettare di essere tra gli invisibili del film, di comparire tra quei nomi che gli spettatori leggono distrattamente nei titoli di coda, perfino quando si è uno dei protagonisti.
Eppure è un compromesso con cui molti grandissimi attori di cinema e di teatro, magari anche primedonne, scelgono di venire a patti.
Forse lo fanno perché c’è qualcosa di magico quando si fa buio nella sala, e il cono di luce illumina il leggio, il microfono, e gli astanti che registrano le loro tracce con un occhio al girato e uno al testo.
Forse lo fanno perché riempie d’orgoglio animare personaggi e storie che senza il loro afflato di vita scorrerebbero vuoti, ridicoli e incomunicanti, sul grande schermo.
Forse lo fanno perché è catartico esistere nei panni di qualcun altro.
Forse lo fanno per permettere ad altri grandi artisti di comunicarci. Di arrivarci.
Quale che sia la ragione, a fine della registrazione, quando tutte le tracce “buone” vengono armonizzate dal fonico (un altro, dei generosi senza nome di questa storia), ogni parola trova il suo posto in una trama perfetta, e, da mera, inconsapevole, spettatrice, mi godo la sinfonia degli invisibili.


Elena Dragoni

Doppiaggio Cinema Immagina  

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